di Francesco Oliva
SALENTO – Due organizzazioni saldamente unite fra loro dal core business della droga: una glocal con ramificazioni in Albania e specializzata nello smercio di ingenti carichi di stupefacente con il Paese delle Aquile; la seconda, invece, tutta local: una cosca mafiosa strutturata e verticistica, dedita allo spaccio, alle estorsioni e ai servizi di guardiania. Con un occhio puntato ai business di uno degli eventi più attesi dell’estate salentina. È imponente il blitz condotto dalla Guardia di Finanza di Lecce alle prime luci dell’alba quando oltre 80 militari, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, hanno arrestato i vertici e gli esponenti di spicco del clan “Caracciolo-Montenegro”, attivo sui territori di Monteroni, Leverano, Copertino, Porto Cesareo e con ramificazioni anche nel sud Salento.
In carcere sono finiti: Alessandro Caracciolo, inteso “Frasola”, 56 anni, di Monteroni; la moglie Maria Antonietta Montenegro, 49 anni, di Monteroni, entrambi con un ruolo apicale dell’organizzazione; Mirco Burroni, 35 anni, di San Cesario; Angelo Cosimo Calcagnile, alias “candelotto”, 43 anni, di Leverano; Simona Caracciolo, 28 anni, di Monteroni; Salvatore Conte, 52 anni, di Leverano, attualmente detenuto; Antonio Cordella, 32 anni, di Leverano; Piergiorgio De Donno, 32 anni, di Porto Cesareo; Alessandro Francesco Iacono, 35 anni, di Leverano; Cristian Nestola, 34 anni, di Leverano; Andrea Quarta, inteso “Bisca”, 36 anni, di Leverano; Michele Antonio Ricchello, 43 anni, di Alliste. Ai domiciliari è stato accompagnato Andrea Ricchello, 31 anni, di Leverano. Risultano indagati a piede libero: Andrea Carlino; Loris Pasquale Casarano; Astrit Metini, Roxhers Nebiu; Luigi Reho, Altin Shehaj; Silvano De Leone; Maria Lucia Maniglia; Erika Caracciolo; Emanuel Centonze; Andrea Quarta; Simone Mazzotta; Bruno Guida; Stefano De Leo; Giovanni Carofiglio e Stefano De Leo.
L’INDAGINE
L’indagine, ribattezzata “Battleship”, ha consentito di arrestare quattro persone in flagranza di reato per traffico di stupefacenti. I reati contestati, a vario titolo, ai componenti dell’organizzazione sono quelli di associazione di tipo mafioso, associazione a delinquere finalizzata alla produzione ed al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, estorsione, rapina, furto e minaccia aggravata con l’uso delle armi.
Le indagini, condotte dal Gico del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Lecce, durate quasi due anni, hanno minuziosamente ricostruito l’operatività criminale del gruppo capeggiato da Alessandro Caracciolo (detto “Frasola”) e dalla moglie Maria Montenegro, inizialmente affiliati al famigerato clan “Tornese”, dal quale si sono poi gradualmente svincolati e con cui è maturata una crescente conflittualità per assicurarsi il controllo del territorio.
Una vera e propria associazione a delinquere di “stampo mafioso”, come afferma lo stesso gip Carlo Cazzella, dotata di una struttura gerarchica e ramificata, che ha consentito alla famiglia di Monteroni di assumere il controllo totale delle attività delinquenziali nell’ambito del territorio di propria influenza, riscuotendo il cosiddetto punto sugli introiti delle attività criminali (ossia una percentuale su tutte le attività delittuose di rilievo compiute sul territorio, in misura non inferiore al 20%), imponendo, tra l’altro, servizi di guardiania in occasione di pubblici spettacoli.
SERVIZI DI GUARDIANIA NELL’AMBITO DELLA FESTA DELLA BIRRA
Le mani del clan, infatti, si sarebbero allungate sull’evento fieristico noto come “Festa della Birra” nell’agosto del 2015 (ovviamente estraneo a qualsiasi coinvolgimento nell’inchiesta). Un capo d’imputazione, contenuto nelle 81 pagine dell’ordinanza, è eloquente. Angelo Cosimo Calcagnile, Cristian Nestola e Andrea Quarta avrebbero costretto il titolare di una struttura installata in occasione dell’evento fieristico a consegnare, in cambio del servizio di guardiania, una imprecisata somma di denaro oltre a un numero spropositato di biglietti omaggio. Tanto che un affiliato (Angelo Calcagnile) disapprovava la cupidigia dei coniugi Caracciolo e in particolare della moglie in occasione della festa della birra: (“Si sta fottendo pure la festa…sta mangiando pure là…è lei che sta mettendo fuoco”). Sempre lo stesso Calcagnile faceva riferimento all’esigenza di sorvegliare sul comportamento di alcuni giovani che pretendevano minacciosamente di fruire delle giostre: (“ragazzini stanno andando, non vogliono pagare per salire…ad uno lo hanno minacciato che se non gli fanno il panino gli bruciano il camion…adesso li vado a prendere”).
PESTAGGI CONTRO I DEBITORI
Il sodalizio avrebbe assunto condotte spesso minacciose e violente per incamerare introiti destinati al sostentamento degli affiliati detenuti e dei loro familiari e col preciso scopo di affermare e conservare il proprio controllo sul quella porzione di Salento ritenuta di propria pertinenza (Monteroni, Leverano, Copertino, Porto Cesareo e sud Salento). Come emerge da un dialogo tra Alessando Iacono e Antonio Cordella impegnati a rastrellare denaro da versare alla mamma di Conte: “Occorre pensare alla mamma di Salvatore, “gliene abbiamo dati già 400”, “domani abbiamo 1600 euro…li portiamo ad Anna…adesso l’importante è che ci cacciamo i soldi, almeno 1000 euro diamo a quella…basta che diamo 1000 euro a quella cristiana”, si legge in alcune intercettazioni. Un clan che sapeva usare ora la carota ora il bastone. Come accaduto in occasione dell’arresto di Maria Montenegro finita in manette il 4 novembre del 2015. Un arresto, a dire del clan, concretizzatosi dopo una soffiata di Simone Mazzotta che, proprio quel giorno, non aveva accompagnato in auto la donna come di consueto. Lui che, stando a quanto riportato nell’ordinanza, era tra i più fidi collaboratori dei vertici del sodalizio, spesso peraltro fungendo da autista per conto di Maria Montenegro allorquando la donna aveva necessità di spostarsi. Che avesse sciolto la lingua per macchiarsi di un'”infamata” ne erano convinti Marco Burroni (è stato lui, basta!); Luigia Maniglia (che contattando Mazzotta lo accusava apertamente dicendo: “Sì nu lurdu…bastardu….”). Al che Alessandro Caracciolo, furibondo, preannunciava una severa punizione (con una mazza devo andare…gli devo fare male…davanti a suo padre e a sua madre…vai a piangere…pum in faccia con una mazza da baseball). Dal carcere, infine, la Montenegro avrebbe invitato le figlie ad imporre a Mazzotta quanto meno di risarcire il danno del sequestro della droga per 1250 euro.
IL RUOLO DELLA MONTENEGRO
E proprio il ruolo centrale della Montenegro nella consorteria emerge nell’inchiesta. L’operazione “Battleship” ha dimostrato – come in altri contesti mafiosi nazionali – il decisivo ruolo chiave delle donne del clan, non solo in grado di impartire ordini e dirigere le operazioni, ma anche in grado di rendersi esse stesse protagoniste di minacce ed intimidazioni per imporre la “forza” e la “presenza” della famiglia nei confronti di coloro i quali si rivelavano riluttanti ad accettare l’egemonia criminale dei “Caracciolo – Montenegro”. Perché all’interno dell’organizzazione la Montenegro, con il marito confinato ai domiciliari, è stata intercettata mentre raggiungeva Torchiarolo e Scorrano per rifornirsi di stupefacente. “Purtroppo manca lui qua (riferendosi al marito ndr) e mi tocca fare tutto a me”, si lascia sfuggire in un’intercettazione. Secondo gli investigatori, provvedeva subito alla sostituzione dei sodali di volta in volta arrestati; non esitava a sollecitare i debitori al saldo immediato con toni spicci e minacciosi (“ti devo ammazzare proprio?”, intercettano i finanzieri); al contempo gli associati sottostavano, sia pur non sempre di buon grado, alle direttive. In particolare, dopo l’arresto di Cordella, Andrea Quarta e Angelo Calcagnile osano criticare il modus operandi dei Caracciolo, ossia la consegna continuativa di piccole quantità di droga che accresceva il pericolo di controlli delle forze dell’ordine: “Non si può andare e venire tutti i giorni…non vogliono capirla, se glielo dici si arrabbiano” è uno stralcio di una conversazione captata dalle cimici.
UN EPISODIO INQUIETANTE, L’AFFISSIONE DI MANIFESTI FUNEBRI
Proprio l’arresto di Andrea Quarta rappresenta il prequel di uno dei fatti più sconcertanti ricostruiti dagli investigatori. L’arresto di “Bisca” fece emergere l’aspra rivalità insorta fra Alessandro Caracciolo e il fratello Davide alimentata dal sospetto che fosse stato proprio quest’ultimo, appartenente al nucleo della Guardia di Finanza, ad aver fatto confidenze utili a consentire l’arresto, il 7 agosto del 2015, di Andrea Quarta per il trasporto di droga. Il risentimento sfociò nell’affissione di macabri manifesti funebri a Leverano dall’eloquente tenore intimidatorio nei riguardi del presunto delatore: “Per la prematura scomparsa del finanziere Caracciolo Davide la comunità intera rende grazie a Dio per il lieto evento”. Alcune conversazioni tra lo stesso Quarta e Angelo Calcagnile, ritenuti gli esecutori materiali, commentano in “diretta” le operazioni di affissione da parte dei due sodali: “Telecamere non ce ne sono…mi metto qua in mezzo con la macchina…scendo…pom.pom…e lo incollo…). Un gesto tanto eclatante quanto indicativo della forza d’intimidazione e del controllo del territorio così come sottolinea lo stesso gip nell’ordinanza: “Il gesto era infatti chiaramente finalizzato ad affermare spavaldamente nell’abitato di Leverano la supremazia del sodalizio e a porre l’intera popolazione in condizione di assoggettamento ed omertà”.
Fin qui il lungo elenco delle accuse. A breve gli arrestati otranno fornire la propria versione assistiti, tra gli altri, dagli avvocati Luca Puce, Cosimo D’Agostino, Ladislao Massari, Giuseppe De Luca, Umberto Leo, Angelo Ninni, Stefano Pati, Massimo Bellini, Giuseppe Romano e Angelo Vetrugno.
The post Mafia, droga, il controllo dei servizi di guardiania e manifesti funebri: decapitato il clan “Caracciolo-Montenegro” appeared first on Corriere Salentino.