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“Nella Terra di Nessuno. Lo sfruttamento lavorativo in Agricoltura”: presentato a Nardò il rapporto di Caritas italiana

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confNARDO’ (Lecce) – Il freddo pungente di martedì non ha fermato le oltre trecento persone che hanno riempito il PalaEventi di Nardò per assistere alla presentazione del rapporto “Nella Terra di Nessuno. Lo sfruttamento lavorativo in Agricoltura” di  Caritas italiana, redatto al termine del primo dei due anni del Progetto Presidio.

La scelta della location non è stata casuale. L’amministrazione aveva infatti messo a disposizione anche la cornice più elegante del Teatro Comunale, ma gli operatori Caritas non hanno avuto dubbi: meglio la grande tenda, per richiamare le condizioni di precarietà dei migranti che ad ogni stagione arrivano nel nostro sud per trovare un lavoro al limite della schiavitù. Ad aprire i lavori Don Giampiero Fantastico, Direttore della Caritas Diocesana, il Vescovo di Nardò Gallipoli Monsignor Fernando Filograna, il Sindaco di Nardò Marcello Risi e il delegato regionale di Caritas Puglia don Mimmo Francavilla.

Il Progetto Presidio

Sono 10 le diocesi italiane attive nel Progetto, che hanno incontrato circa 3mila lavoratori, in gran parte provenienti dall’Africa Sub Sahariana, ma anche da Romania e Bulgaria. Lavoratori giovani, per poter resistere alla durezza dei campi: senza protezioni, senza orari, senza tutele, spesso senz’acqua. Un terzo vive in strutture di accoglienza e due terzi dentro alle tende, in casolari diroccati o sotto gli alberi, all’addiaccio. Spesso hanno contratto debiti con chi ha trovato loro l’impiego stagionale, e chi non è indebitato presto lo diventa perché i caporali controllano tutto: trasporti, alloggi, cibo, prostituzione. In questo scenario, come ha spiegato Oliviero Forti, responsabile nazionale Caritas per l’immigrazione, il Progetto Presidio è (ancora) l’unico intervento sistematico a livello nazionale.

La Puglia, nel 2015, ha pagato il prezzo più alto, per due volte, e il grido di dolore per la morte di Mohamed, avvenuta nell’agro di Nardò, si è rispecchiato in quello per il decesso di Paola, nel tarantino: due lutti consumati in poco più di una settimana e orribilmente efficaci per testimoniare come lo sfruttamento lavorativo nei campi sia una questione che interroga la società tutta, senza distinzioni di genere o di cittadinanza.

Lo sfruttamento e il caporalato

Lo sfruttamento è un’idra dalle molte teste e il caporalato è solo una delle sue espressioni, ma certamente va combattuta: il Sottosegretario di Stato Teresa Bellanova ha illustrato lo stato dei lavori del progetto interministeriale  per la legge anti-caporalato (in queste ore sul tavolo del Presidente della Repubblica), che mira fra le altre cose a estendere il reato di grave sfruttamento anche alle imprese, attivare una collaborazione e un dialogo costante con l’Antimafia e con le Associazioni sul territorio, rafforzare la rete del Lavoro Agricolo di Qualità coinvolgendo anche la filiera della trasformazione e della Grande Distribuzione per incentivare le imprese a fornire prodotti etici. Snodo fondamentale del dispositivo l’art 6, che punta a colpire al cuore il caporalato attivando tutta quella serie di servizi di solito fornita dai capineri e che costituiscono una formidabile arma di controllo e di ricatto, primi fra tutti trasporto e alloggi.

Un pezzo di lavoro è certamente nazionale, ma un altro pezzo – non meno importante – è locale: la Regione Puglia, ha dichiarato Stefano Fumarulo, titolare delle Politiche per le Migrazioni, è già impegnata nel censimento delle strutture confiscate e di quelle pubbliche per fornire soluzioni al problema dell’alloggio, mentre dal dialogo con le associazioni datoriali dovrebbe arrivare risposte alla questione del trasporto dei lavoratori stagionali.

Una questione di legalità

La questione sul tavolo, come ha efficacemente ricordato il Sostituto Procuratore Cataldi, è legale non meno che politica: l’operazione Sabr, il cui epicentro è stato proprio l’agro di Nardò, nel biennio 2009-2011 ha portato alla luce la struttura piramidale di un’organizzazione criminale finalizzata allo sfruttamento degli immigrati nella raccolta di angurie e di pomodori, con ipotesi di reato che addirittura ricadono nella riduzione in schiavitù. Secco il “no” alle tendopoli espresso dal dottor Cataldi, che sono destinate o a restare vuote o a diventare luoghi criminogeni, perché, ad esempio, non si possono ghettizzare 300 uomini sperando di non attirare l’interesse delle mafie che gestiscono lo sfruttamento sessuale. Il Viceprefetto di Lecce Claudio Sergi ha quindi radiografato la situazione attuale e dato contezza dei lavori del Tavolo attivo in Prefettura, al lavoro su cinque aree tematiche.

L’agro di Nardò

Ma la discussione non avrebbe potuto avere luogo senza il lavoro degli operatori del Progetto Presidio della diocesi di Nardò Gallipoli: Gregorio Manieri, Paolo Cuppone, Luisella Albano, Alessandra Gaballo, Paola Paglialunga e Roberto De Donatis, senza dimenticare il direttore Don Giampiero Fantastico. Il dottor Manieri ha fornito un quadro della situazione registrata nell’agro di Nardò nel biennio di lavoro svolto finora: delle 350 presenze gli operatori ne hanno censite 260, per la maggior parte tunisini – che poi si spostano a Ragusa per lavorare nelle serre dal ragusano – e sudanesi  – che invece “scompaiono” dai radar dopo la stagione delle angurie, di età media tra i 30 e i 35 anni. Quasi tutti maschi, tranne un gruppo di 12 donne tenute (o detenute) nell’ex falegnameria – un edificio fatiscente e a rischio crollo – e sfruttate per la prostituzione: se sia solo per stranieri o anche per gli italiani, è un inquietante interrogativo ancora senza risposta. Il 30% degli uomini è sposato o convive, e la volontà di aiutare le famiglie rimaste a casa è proprio la molla che li ha spinti a lasciare il paese d’origine, salvo trovare condizioni di vita peggiori di quelle dei familiari che vivono del loro magro sostegno. Le giornate lavorative sono di 10-12 ore e il fenomeno della sostituzione di persona è all’ordine del giorno (si usano i documenti di lavoratori regolari per coprire la presenza di irregolari). La totale mancanza di acqua – nell’ex falegnameria e ovviamente nelle tende – è una delle più gravi piaghe. I lavoratori possono contare su un solo pasto caldo al giorno, preparato nelle cucine da campo gestite da connazionali e in vendita a 5 euro. La paga, al lordo dei “servizi” offerti dai capisquadra, è al di sotto dei 35 euro giornalieri. Nonostante le condizioni siano quasi disumane, per essere ingaggiati è necessario comunque conoscere un caporale, che esige una tangente di 300 euro.

Gli operatori hanno aiutato i migranti a scrivere CV, hanno fornito assistenza legale e amministrativa per le questioni relative a documenti e permessi di soggiorno, provveduto a fornire acqua e servizio mensa, approntato un servizio di ciclofficina con bici gratis e dato assistenza medica (totalmente prestata a titolo gratuito da medici volontari Caritas) per oltre 400 visite mediche. La parola d’ordine per gli operatori è stata “prossimità”, grazie a momenti di vita comune e soprattutto a un costante interesse dimostrato per i lavoratori anche andandoli a trovare nelle loro “abitazioni”, testimoniando una vicinanza e una disponibilità all’ascolto capace di ottenere la fiducia di persone spesso vittima della paura di perdere anche l’ultima possibilità, per quanto terribile, di ottenere un reddito.

Come ha ribadito a conclusione dei lavori Don Giampiero Fantastico, il senso di questa tavola rotonda non è stato tanto quello di raccontare nozioni e statistiche che gli addetti ai lavori già conoscevano, ma di fare rete, e ognuno nel proprio campo – i politici, le forze dell’ordine, gli operatori specializzati, ma anche i semplici cittadini – raccogliere anche oggi l’invito lanciato da Don Tonino Bello, profeta dei nostri tempi, quando scuoteva le coscienze dicendo a gran voce: “In piedi, operatori di pace!”.

 

 


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